Il Sudan, paese situato nel cuore dell’Africa, è attualmente teatro di un conflitto devastante che ha portato a una crisi umanitaria senza precedenti. Le radici di questa guerra affondano in decenni di tensioni politiche, etniche, religiose e sociali, che si sono intensificate nell’ultimo periodo, portando il paese sull’orlo di un collasso totale.
Oltre dieci milioni di persone – su circa 42 milioni di abitanti, distribuiti su un territorio di quasi due milioni di chilometri quadrati – sono costrette ad abbandonare le proprie case e a cercare un riparo sicuro, 25 milioni – circa la metà della popolazione del paese – sono quelle bisognose di assistenza umanitaria e di cibo, il sistema sanitario è al collasso con un solo ospedale su tre funzionante e con un carico sovrabbondante di pazienti a fronte di una crescente carenza di personale sanitario.
Ecco le conseguenze più macroscopiche di un conflitto sanguinario e devastante che i ‘signori della guerra’ hanno scatenato in Sudan nel silenzio pressoché tombale della cosiddetta opinione pubblica mondiale.
Ma come si è arrivati a questa tragica situazione?
Per comprendere appieno la situazione odierna, è fondamentale esaminare le radici storiche dei conflitti in Sudan. Il paese ha una lunga storia di colonizzazione e oppressione, iniziata con il dominio ottomano e poi con quello britannico interessato ad avere una continuità territoriale nel continente africano dal Cairo a Città del Capo. Una storia nella quale non sono mai mancati i conflitti e i tentativi di consolidamento statale e di liberazione dal giogo coloniale.
Gli inglesi arrivarono a concepire, dopo la Prima guerra mondiale e a fronte dello sviluppo dei movimenti di liberazione nazionale sia in Egitto che in Sudan, l’aggregazione della parte meridionale, abitata prevalentemente da popolazioni nere, all’Uganda imponendo nel contempo la proibizione di unioni matrimoniali tra persone del sud con quelle del nord, accentuando così le divisioni esistenti in un paese di grande complessità etnica, culturale, linguistica, tribale, religiosa ed esacerbando così le tensioni. Una complessità che, è bene rimarcare, è soprattutto frutto delle categorie tribali e dei confini imposti dai colonizzatori e del retaggio razzista (Khartoum era un centro del commercio degli schiavi, ovviamente neri, gestito da arabi e nubiani del centro-nord). Nel 1950 cominciò a svilupparsi nel paese un forte movimento indipendentista che conquistò uno statuto di autogoverno e promosse l’elezione di un parlamento esclusivamente sudanese il cui primo obiettivo fu la proclamazione dell’indipendenza, conseguita nel 1956, in un contesto di guerra civile iniziata l’anno prima a causa della contrapposizione tra il nord arabo-islamico ed il sud afro-animista e cristiano. Una guerra conclusa nel marzo del 1972 e che comportò la morte di quasi un milione di persone. La dittatura del generale Nimeiry, imposta dopo il colpo di Stato del 1969, sembrò rappresentare un punto di svolta nei rapporti tra nord e sud del paese con la promessa di concessione di un’ampia autonomia amministrativa ma fu un’illusione. Passando dall’alleanza con l’Egitto a quella con l’Arabia Saudita, e poi ancora con l’Egitto di Sadat e gli USA, Nimeiry rinnegò progressivamente le politiche di apertura per passare ad una islamizzazione del regime secondo i desideri della borghesia musulmana del nord: un processo questo che gli alienò le simpatie del sud. Le misure di austerità assunte, su raccomandazione del Fondo monetario internazionale (FMI) – 60% di aumento dei combustibili, le imposte sul tabacco e alcuni generi di consumo – comportarono poi lo sviluppo di un ampio movimento di lotta – fatto da ferrovieri, operai, studenti, lavoratori del pubblico impiego – duramente represso da esercito e polizia.
La crisi economica e il debito pubblico spinsero Nimeiry a centralizzare ulteriormente il suo potere a Khartoum e a installare al nord le industrie di raffinazione del petrolio recentemente scoperto al sud. Inoltre impose la ‘sharia’ (la legge islamica) a tutto il paese, fornendo così le condizioni per una sollevazione popolare nel sud, sostenuta da gruppi guerriglieri sfociata in una seconda guerra civile (1983-1998) che ha ulteriormente esasperato le divisioni esistenti e che ha prodotto la secessione del Sud nel gennaio del 2011 e la costituzione di un nuovo Stato. Nel frattempo l’erosione di consenso da parte della borghesia e degli alleati, congiuntamente alle proteste popolari contro il costo della vita, comportarono la caduta di Nimeiry e l’assunzione al potere prima del generale al Dahab, poi, dopo una breve pausa di un governo eletto democraticamente (ma senza la partecipazione di quello che rimaneva del sud) di Omar al-Bashir, salito al potere con un colpo di Stato nel 1989 e rimastovi fino all’aprile del 2019 quando, dopo anni di oppressione e di massacri – come nel Darfur nel 2003 – le masse popolari sono scese in piazza per chiedere libertà e giustizia sociale con un protagonismo significativo delle donne e dei giovani riuscendo ad ottenere la caduta del dittatore. Era dal 19 dicembre che si susseguivano manifestazioni e cortei nonostante la violenta repressione da parte dei servizi di sicurezza e delle milizie governative (maltrattamenti, arresti, torture e assassinii si sono ripetuti contro gli oppositori e le donne colpite spesso per l’abbigliamento e condannate alla lapidazione e alla fustigazione) per protestare contro l’aumento abnorme del prezzo del pane e la mancanza di denaro contante e le manifestazioni non si sono fermate nemmeno dopo l’arresto di al-Bashir da parte dei militari. Una rivolta che ha superato tutte quelle diversità politiche, sociali, regionali che hanno rappresentato l’elemento di forza del governo. Ma la richiesta di una modifica in senso democratico della struttura di potere del paese è presto caduta nel vuoto in quanto il Consiglio militare, succeduto ad al-Bashir, è ricorso alla violenza per reprimere e soffocare il movimento di protesta che, strutturato per consigli di zona, ha continuato con forza la sua azione, promuovendo lo sciopero generale e la disobbedienza civile, nonostante che l’11 giugno l’esercito abbia sparato sui manifestanti provocando oltre 100 morti e 700 feriti, per non contare le donne stuprate nello stesso giorno (più di 70 secondo il Comitato centrale dei medici). (In Umanità Nova n°24 del 6 ottobre u.s. vi è una significativa intervista di un anarchico partecipe, con il suo gruppo, ai moti di piazza).
La mediazione raggiunta tra l’Unione africana, gli inviati etiopi, i legali del Consiglio militare e quelli espressione della protesta, nel luglio del 2019 prevedeva la nascita di un organismo transitorio congiunto civile-militare in funzione per tre anni, con un militare Abdel Fattah al-Burhan come presidente per i primi 21 mesi ed un civile per i restanti, in grado di dare vita ad un processo democratico parlamentare. Un nuovo colpo di Stato militare nel 2021 affossava il governo di transizione guidato da Abdalla Hamdok aprendo una nuova fase d’instabilità: gli autori lo stesso al-Burhan e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come “Hemedti”.
Se Hamdok non era riuscito a stabilizzare l’economia del paese in preda ad una forte inflazione, e a regolare l’ingordigia dei militari nei settori più remunerativi del paese, nemmeno i due generali, autori del colpo di Stato, sono riusciti a risolvere la crisi economica, aggravata dagli effetti della pandemia del Covid-19 e dalle sanzioni internazionali. Si sono solo dimostrati più feroci nella repressione. Un alleanza, la loro, durata formalmente fino al 15 aprile 2023 quando le Forze armate sudanesi (SAF), comandate dal generale al-Burhan, e le Forze di supporto rapido (RSF), una formazione costituita in gran parte da ex membri delle famigerate milizie Janjaweed del Darfur, guidata da “Hemedti”, hanno dato vita ad una guerra civile di tragiche proporzioni, in cui sono confluite anche le lotte di potere tra i vari gruppi militari e paramilitari, storicamente legati a diverse fazioni politiche e etniche. Le rivalità tra questi gruppi non sono solo politiche, ma anche economiche, per il controllo delle risorse naturali, come oro (il Sudan è il terzo produttore africano) e petrolio, che giocano un ruolo cruciale nel conflitto. Una guerra questa che come primo risultato è stata la dispersione del movimento di opposizione popolare, molti comitati di lotta costituitisi nel 2019 si sono convertiti in gruppi assistenziali, altri sono passati alla lotta armata di autodifesa e altri ancora si sono dissolti. L’attività dei partiti politici è praticamente azzerata nonostante i tentativi di costruire qualche proposta d’azione comune. Una guerra che coinvolge i paesi confinanti, sia con il reclutamento – le RSF reclutano tra i nomadi del Ciad e del Niger, hanno relazioni con formazioni libiche e centroafricane – sia per il sostegno ricevuto: le RSF sono sostenute da Etiopia, Qatar, Turchia e dagli Emirati Arabi Uniti (EAU) che le riforniscono d’armi tramite la compagnia aerea FZC via Ciad. Le SAF invece godono dell’appoggio di Eritrea, Egitto, Arabia Saudita, Iran e Russia (tramite il gruppo Wagner che è coinvolto significativamente nel settore aurifero). Poi ci sono le forniture delle armi e qui la lista è lunga: Russia, Cina, Turchia, EAU, Serbia, Yemen…
E l’Unione europea, la patria dei diritti umani, come si comporta a fronte dei massacri in corso, delle violenze inenarrabili, del rischio concreto di carestia, degli stupri, degli arresti e delle torture? Nel 2014 fu lanciato il cosiddetto ‘Processo di Khartoum’ (precisamente “Iniziativa UE per le migrazioni nel Corno d’Africa”) a fronte dell’aumento delle migrazioni da quella regione verso l’Europa. 4,5 miliardi di euro furono devoluti a vari paesi africani dell’area, compresi quelli a regime chiaramente dittatoriale come Eritrea e Sudan, per il controllo e la repressione dei migranti. Il Sudan era ed è un centro di migrazione molto importante: da un lato, è esso stesso il paese di origine di milioni di rifugiati e sfollati interni a causa dei suoi conflitti, ma dall’altro è anche un importante punto di transito per le rotte migratorie di persone provenienti da tutta l’Africa, in particolare dal Corno d’Africa, che poi vogliono raggiungere l’Europa. In questo quadro risalta il sostegno dato alle Forze di supporto rapido , impiegate per la protezione delle frontiere pur sapendo che le RSF derivano dalla milizia Janjaweed, responsabile del genocidio nel Darfur nei primi anni 2000, autrice di massacri, stupri e violenze di ogni tipo, come pure quello dato ai servizi segreti governativi pur essendo noti i loro crimini contro i gruppi di opposizione.
Lo Stato italiano, in proprio e in qualità di appartenente dell’UE, è stato corresponsabile di questa situazione fornendo addestramento militare, armi e soldi. Ed è anche per questo che la guerra in Sudan ci riguarda; non è una guerra lontana, è qui, in mezzo a noi grazie ai razzisti e i neocolonialisti di casa nostra. Rompiamo il muro del silenzio!
Massimo Varengo